Giuseppe Zuccarino est professeur, critique et écrivain. Ses derniers ouvrages sont un recueil d’essais sur la littérature et les arts, Da un’arte all’altra, ainsi qu’un très beau recueil de fragments, Grafemi. Il participe à de nombreux projets dont le site italien La Dimora del Tempo Sospeso.
Fra gli scritti narrativi di Maurice Blanchot, L’arrêt de mort è forse quello che esercita una maggiore attrattiva sul lettore (su un certo tipo di lettore), unita però ; a un notevole effetto intimidatorio. I due aspetti sono già stati segnalati da tempo dalla critica : l’opera appare magistrale sotto il profilo letterario, ma molto complessa, tanto che, dopo tutti i tentativi di decifrazione che ne sono stati compiuti, conserva ancora un carattere misterioso. Certo, esistono narrazioni blanchotiane ancor più enigmatiche di questa, ma non si può ; dire che la superino per intensità emotiva. è forse lecito ravvisare in ciò ; una conferma dell’impressione suscitata dal racconto in Bataille: quella che l’autore sia stato costretto a scriverlo (1). Una lettura di esso, specie se contenuta in un ristretto numero di pagine, dovrà subito confessare i propri limiti, sia rinunciando a seguirlo punto per punto, sia tenendo conto solo in minima parte di ciò ; che è stato detto dagli studiosi precedenti.
Di fronte a L’arrêt de mort, ci sono almeno due domande che tornano spesso, quasi in via preliminare. La prima riguarda il senso del titolo (lo si deve intendere nell’accezione di “la sentenza di morte” oppure in quella di “la sospensione della morte” ?) e l’altra la struttura (si tratta di un unico racconto diviso in due sezioni oppure di due racconti distinti ?)(2). Tuttavia, se si va a leggere la prière d’insérer, cioè il foglietto informativo che accompagnava la prima edizione del libro blanchotiano, entrambi i dubbi sembrano dover essere fortemente ridotti. Il foglietto comprende due brevi scritti, il primo dei quali, siglato M. B., è disposto sulla pagina come una sorta di epigrafe: “Indubbiamente non vi è nulla di comune tra questi due libri, Le Très-Haut, L’arrêt de mort, che vengono pubblicati nello stesso tempo(3). Ma, a me che li ho scritti, sembra che l’uno sia, in certo modo, presente dietro l’altro, non come due testi che si implicano a vicenda, ma come due versioni inconciliabili, e tuttavia concordanti, di una stessa realtà, ugualmente assente da entrambe”. Segue un secondo brano, anonimo ma ancor più significativo: “Questo è forse un racconto strano, ma riferisce, in piena chiarezza, eventi di cui tutto lascia credere che abbiano avuto luogo realmente, e che continuino, ancora adesso, ad aver luogo. Poe ha narrato, in un celebre racconto, la cupa storia di un essere che non aveva potuto rassegnarsi a morire. Ma Poe, ossessionato dal ricordo di sua madre, morta giovanissima, e che egli vedeva rivivere in tutte le donne da lui amate, nella mirabile resurrezione di Lady Ligeia non ha espresso altro che l’ossessione del proprio sogno e del proprio faccia a faccia con la morte. Cosa accadrebbe se colui che muore non si abbandonasse completamente alla morte ? Cos’è accaduto, in verità, il giorno in cui, per la più grande e più seria delle ragioni, qualcuno che era già entrato nella morte, di colpo ha arrestato la morte ? Questa storia non è un sogno, non ha avuto luogo in un mondo di sogno ; è iniziata pochi anni fa, mercoledì ; 13 ottobre ; si è svolta in mezzo a noi ; e può ; darsi che non sia ancora finita, ma forse ciò ; dipende dal fatto che non può ; avere fine. Poiché è anche questo, la morte”(4). La voce che parla in queste righe somiglia già a quella che si rivolgerà ai lettori nel corso del racconto ; sembra escluso, infatti, che considerazioni del genere siano attribuibili a un redattore della casa editrice(5). Dunque è come se il racconto (nella prière d’insérer lo si indica al singolare) cominciasse subito, prima ancora della pagina di apertura, a narrare la storia di una morte sospesa.
Aggiungiamo però ; che, a nostro avviso, le due domande che abbiamo ricordato in precedenza non hanno il medesimo statuto. Quella relativa al titolo è pressante per chi deve tradurre il testo in un’altra lingua, e si trova obbligato a scegliere una delle accezioni del vocabolo arrêt, ma non lo è per il lettore, che ha modo di constatare come, nel racconto, si parli sia di una sentenza di morte, sia di un’interruzione della morte. Invece la seconda domanda, quella che concerne la struttura dell’opera, non può ; essere lasciata nell’incertezza. Pierre Madaule, vari decenni fa, ha scritto un libro, a metà strada fra l’autobiografia e la riflessione critica, per spiegare il suo forte legame personale con L’arrêt de mort(6). Ma evidentemente le molte riletture dell’opera blanchotiana non sono bastate a togliergli il dubbio riguardo all’unicità o duplicità del testo, spingendolo, assai più tardi, a interrogare direttamente l’autore. Ecco cosa gli ha risposto Blanchot : “Torno alla domanda (è proprio una domanda ?) sui due racconti distinti. Le faccio una confidenza: Paulhan fu il primo lettore di questo scritto. “Commosso e turbato”, secondo la sua espressione, mi chiese se avrei accettato che egli pubblicasse il primo testo in Les Cahiers de la Pléiade […] aggiungendo (e questo è proprio nel suo stile) “ma so che lei rifiuterà”. In effetti ho rifiutato, tuttavia la proposta di Paulhan mi lasciò ; sconvolto, perché in tal modo presi coscienza che, persino per un simile lettore e malgrado la sua prudente riservatezza, la scissione era possibile – e anche che L’arrêt de mort era un libro”(7). Da queste parole emerge di nuovo con chiarezza come per Blanchot l’opera sia unitaria, inscindibile, e che solo una lettura distratta (che egli non si sarebbe atteso da un grande critico, e amico, come Paulhan) possa far sorgere dei dubbi al riguardo. L’arrêt de mort è “un libro”, e non la giustapposizione di due racconti.
Proviamo a riassumerlo in maniera rapida e sommaria, accontentandoci di evidenziare e commentare, qua e là, qualche singolo tratto. L’inizio è di tono realistico: il narratore precisa subito che gli eventi che si appresta a ricordare si sono svolti in un anno ben preciso, il 1938. Aggiunge che più volte aveva pensato di esporli in forma scritta, e aveva persino attuato il proposito, distruggendo però ; il manoscritto dopo averlo riletto. Ora, a nove anni dai fatti (dunque nel 1947), è intenzionato a dare compimento a quel progetto. Pur con qualche allusione oscura, inizia a parlare della famiglia della donna su cui verte la storia. Si tratta di una famiglia borghese, di condizione economica non florida, specie dopo che il marito è morto e la moglie si è risposata. Le due figlie sono diverse per temperamento: J. (il suo nome viene indicato sempre con la sola iniziale) è caratterizzata da una grande forza di vivere, pur avendo seri problemi di salute, mentre sua sorella Louise è una donna più frivola. Il narratore dichiara di possedere “una prova “vivente””(8) dei fatti accaduti, ma esige che nessuno si avvicini ad essa finché è vivo e, dopo la sua morte, che le persone che gli vogliono bene la distruggano.
Rivolge poi ad essi un’esortazione: “Li supplico di non buttarsi all’improvviso sui miei rari segreti, di non leggere le mie lettere se ne troveranno, di non guardare le mie fotografie se ne compariranno, e soprattutto di non aprire ciò ; che è chiuso: distruggano tutto, senza sapere cosa distruggono, nell’ignoranza e nella spontaneità di un vero affetto”(9). Se uscissimo per un attimo dal racconto, potremmo leggere queste righe come il vero testamento di Blanchot, un testamento che ha già cominciato ad essere disatteso. Ma occorre segnalare che il testo presenta analogie con le intenzioni espresse da Kafka riguardo ai propri inediti che, com’è noto, egli aveva chiesto all’amico Max Brod di distruggere(10). Citiamo solo alcune righe kafkiane: “La mia ultima preghiera: tutto quello che si trova nel mio lascito […], diari, manoscritti, lettere, di altri e mie, disegni ecc., bruciarlo interamente e senza leggerlo, come anche tutti gli scritti e i disegni che tu, o altri a cui tu dovessi chiederlo a nome mio, possedete. Chi non voglia consegnarti delle lettere, dovrebbe almeno impegnarsi a bruciarle di persona”(11). Blanchot, nelle sue vesti di critico, ha già spiegato tutto ciò ;, parlando in anticipo per se stesso: “La gloria dello scrittore, in fretta, si fa potente, e presto onnipotente. Gli inediti non possono rimanere tali. È ; come una forza avida, irresistibile, che va a scavare nelle profondità anche meglio protette, e poco per volta tutto quel che Kafka ha detto per sé, di sé, di coloro che ha amato, che non ha potuto amare, è consegnato, nel massimo disordine, a un’abbondanza di commenti, disordinati anch’essi e contraddittori, rispettosi, sfrontati, infaticabili”(12).
Torniamo al racconto. Il narratore fa un nuovo riferimento all’oggetto in suo possesso, aggiungendo: “Alla fine del 1940 qualcuno, per mio errore, ha avuto un assai vago presentimento di quella “prova”. Poiché non conosceva quasi nulla della storia, non ha neppure potuto sfiorare la verità. Ha soltanto intuito che qualcosa era chiuso nell’armadio (a quell’epoca abitavo in albergo) ; ha visto l’armadio, ha fatto un gesto per aprirlo. Ma in quel momento venne colta da una strana crisi. Caduta sul letto, non cessava di tremare ; per tutta la notte tremò ; senza dire nulla”(13). Notiamo che il tentativo di violazione del segreto da parte di una donna rinvia alla seconda parte del racconto, e anzi più oltre verranno forniti indizi per capire l’effettiva natura della “prova” racchiusa nell’armadio. Dopo questa anticipazione, il narratore ci riporta alla data che già conosciamo, mercoledì ; 13 ottobre 1938 ; in quel periodo egli si trovava lontano da Parigi, ad Arcachon, pur sapendo che la sua amica J. era gravemente malata e forse prossima al decesso. Il dottore, infatti, le aveva dato poche settimane di vita (è questa la principale delle varie “sentenze di morte” che compaiono nel racconto), ed era stato proprio il narratore a comunicarlo all’interessata. Egli manifesta infatti nei suoi confronti una sincerità quasi cinica, giungendo persino a consentire all’ipotesi, da lei formulata, del suicidio, cosa che ferisce J. Ciò ; dipende dal fatto che la ritiene inattaccabile dalla morte – per il coraggio e la decisione con cui lotta contro la malattia – e che non prende troppo sul serio la diagnosi del medico. Questi infatti aveva già formulato in passato un’analoga previsione funesta anche per lui. Il narratore spiega che i diverbi che ha avuto con J. sono stati talvolta delle “scene violentissime”, precisando però ; che, se la donna avesse minacciato effettivamente di ucciderlo, glielo avrebbe impedito, per non causarle poi dei sensi di colpa. Del resto aggiunge di essere sopravvissuto, qualche anno prima, a un tentativo di omicidio da parte di un’altra ragazza, che gli aveva sparato con una pistola. Tutti questi episodi di folle aggressività vengono evocati con indifferenza, e senza mai indicare le motivazioni di comportamenti tanto estremi, come se essi fossero da considerare parte integrante della vita quotidiana.
I rapporti fra il narratore e J. sono stati insoliti fin dall’inizio. Egli l’ha conosciuta in un albergo nel quale si trovava in vacanza, ma la loro familiarità non andava oltre il fatto di scambiarsi un saluto quando per caso si incontravano. Una notte però ; lei si sveglia di soprassalto e crede di vedere lui ai piedi del letto. Ravvisando in ciò ; un presagio funesto, sale al piano in cui si trova la camera dell’uomo e lo chiama da fuori, svegliandolo. La porta, pur essendo chiusa a chiave, si apre a una semplice spinta di J., che entra nella stanza: è la prima delle molte effrazioni che verranno descritte nel racconto. Il narratore rassicura la donna dicendole che non si è mosso da lò ; nelle ore precedenti. A quel punto, lei si stende sul letto e si addormenta. Il narratore ci tiene a respingere ogni sospetto, e precisa che “il movimento che l’ha condotta, nel pieno della notte, verso uno sconosciuto, che l’ha esposta alla sua mercé, è un movimento nobile che lei compì ; nel modo più vero e più giusto”(14). J. è sempre inquieta durante le ore notturne, e questo stato d’animo si accentua durante la malattia, anche perché la sorella Louise e la madre si preoccupano poco di assisterla.
Il medico curante decide di provare su di lei una terapia nuova e molto rischiosa, legittimata unicamente dal fatto che, senza interventi ulteriori, la donna morirebbe comunque in breve tempo. Questo medico – spiega il narratore – ama studiare Paracelso e tentare esperimenti insoliti, ma al tempo stesso si professa cattolico. “Su un muro del suo studio c’era una stupenda fotografia della sacra Sindone di Torino, fotografia in cui egli vedeva la sovrapposizione di due immagini: quella di Cristo, ma anche quella di Veronica ; e in effetti, dietro il volto di Cristo, ho notato distintamente i tratti di un volto di donna estremamente bello e persino superbo, a causa di una bizzarra espressione di orgoglio”(15). Veronica, come ricorda Madaule, è “la pia donna che, alla sesta stazione della Via Crucis, asciuga col velo il volto del condannato che sta salendo sul Golgota e raccoglie così ;, miracolosamente, un’impronta dei lineamenti del suo viso. La sesta stazione, che ricorda questa scena, non è attestata dai Vangeli”(16). Il volto femminile che, nel passo blanchotiano, si profila dietro quello di Cristo, è associabile alla figura di J., il cui destino prevede un’analoga vicenda di morte e risurrezione, e nel contempo dà il via a una catena di simulacri corporei.
Infatti, poco dopo, il narratore ricorda di aver fatto eseguire da uno scultore un calco delle mani di J., perché le linee rilevabili sul palmo gli apparivano strane (specie la linea del destino, che era una specie di solco profondo), e aggiunge: “Non saprei descriverle, benché io le abbia in questo momento sotto gli occhi e siano vive”(17). Notiamo per inciso come l’espressione usata stabilisca un nesso fra il calco e la “prova “vivente”” dei fatti di cui si è parlato all’inizio del racconto. Il narratore, riflettendo sugli eventi del 1938, non riesce a spiegare la propria esitazione nel tornare a Parigi (come già detto, si trovava ad Arcachon), tanto più che egli svolgeva allora la professione di giornalista e il periodo era quello, preoccupante, segnato dagli accordi di Monaco sull’annessione dei Sudeti al Reich tedesco. Riferimenti del genere non servono solo a far apparire realistico il racconto, ma risultano tali da collegare la vicenda narrata alla vita di Blanchot ; tuttavia rinunceremo qui a seguire questa pista esegetica, che è stata brillantemente percorsa da altri(18).
Le notizie che giungono al narratore da J., dopo l’inizio della cura, sono sempre più allarmanti. Il medico stesso decide di interrompere la terapia e di prescrivere alla donna degli stupefacenti, per lenirne le sofferenze. Ma ciò ; porta a un ulteriore peggioramento delle condizioni della paziente, tanto che il dottore sopprime le somministrazioni di morfina, suscitando le proteste della donna, che litiga con lui: “Durante la scenata, J. gli disse: “Se non mi uccide, lei è un assassino”. Ho letto, dopo di allora, una frase analoga attribuita a Kafka”(19). Come si vede, è lo stesso Blanchot a richiamare la somiglianza con la situazione dello scrittore praghese, gravemente malato di tubercolosi alla trachea e prossimo alla morte. Il riferimento è a un passo della biografia scritta da Brod: “In quel momento incominciò ; la lotta per la morfina. Franz disse a Klopstock [il suo medico]: “Lei me l’ha sempre promessa, ormai da quattro anni. […]” Seguirono le parole già menzionate: “Mi uccida, altrimenti è un assassino””(20). La frase si rivela efficace, dato che Kafka nella realtà e J. nel racconto ottengono ciò ; che hanno chiesto. Finalmente il narratore decide di tornare a Parigi, dove risiede in “un albergo di rue d’O.”(21). Arriva di sera, ma già nel corso della notte viene svegliato da una telefonata di Louise, la quale gli annuncia che sua sorella sta morendo e lo invita a recarsi subito a casa loro. Giunto sul posto, egli apprende con dolore che nel frattempo il decesso è avvenuto. Louise capisce che vuole rimanere solo con la salma di J. e fa uscire le altre persone presenti nella stanza.
Egli contempla il corpo dell’amica, che gli appare più simile a una scultura che non a una persona: “Lei era un pò ; più allungata di quanto avessi immaginato, con la testa su un piccolo cuscino e avendo, per questa ragione, l’immobilità di una figura giacente […]. Ormai lei non era altro che una statua”(22). Poi si comporta in maniera, a prima vista, irrazionale: “Mi chinai su di lei, la chiamai a gran voce, con una voce forte, per nome ; e subito – posso dirlo, non ci fu un secondo d’intervallo – una specie di respiro uscò ; dalla sua bocca ancora chiusa, un sospiro che a poco a poco divenne un leggero, un debole grido ; quasi contemporaneamente – anche di questo sono sicuro – le sue braccia si mossero, cercarono di sollevarsi. In quel momento le palpebre erano ancora completamente chiuse. Ma dopo un secondo, forse due, bruscamente si aprirono”. L’uomo, invece di spaventarsi, viene colto da un moto di tenerezza e la abbraccia: J. sembra essere “non solo totalmente viva, ma perfettamente naturale, allegra e quasi guarita”(23). La scena, della cui efficacia sul piano narrativo non si può ; dare un’idea richiamandone soltanto poche frasi, ricorda per certi aspetti quelle dei miracoli di Gesù descritte nei Vangeli, ma qui il tono ha assai poco di religioso. Non a caso il narratore, nell’osservare il corpo immobile di J., aveva notato con sollievo che le sue mani “fortunatamente non erano giunte”(24).
L’episodio della risurrezione di J. risulta senz’altro insolito, se si considera il racconto sotto il profilo realistico. Ma se invece lo si rapporta all’ambito della letteratura fantastica, non sarà difficile trovargli qualche precedente autorevole, in testi sicuramente noti a Blanchot. Pensiamo ad esempio a L’angolo prediletto di James o a I coniugi di Kafka(25). In entrambi i casi, il personaggio che è (o ritiene di essere) richiamato alla vita è un uomo, e il prodigio viene reso possibile dall’amore di una donna. Come si è visto, in Blanchot i ruoli si invertono, ma è ugualmente una spinta affettiva ciò ; che spinge il narratore a non accettare la morte di J., cancellandone in tal modo gli effetti. Il risveglio della donna ha luogo all’alba ; le sue condizioni appaiono buone: è lieta, scherzosa, mangia di buon appetito. Solo verso sera il suo umore cambia: se finora non è sembrata consapevole degli eventi accaduti la notte precedente, ora comincia ad avere sospetti, vedendo che il narratore intende rimanere ad assisterla. “Verso le undici o mezzanotte, ebbe un leggero incubo. Comunque era ancora sveglia, perché le parlai e mi rispose. Vide spostarsi per la stanza ciò ; che chiamò ; “una rosa per eccellenza”. Durante la giornata le avevo fatto portare dei fiori di un rosso intenso […]. Pensai che quell’immagine onirica le venisse dai fiori che forse la disturbavano”(26). Il narratore apprende però ; dall’infermiera che la notte precedente J. aveva usato quella strana espressione per designare, e richiedere, la bombola d’ossigeno: erano state anzi le sue ultime parole.
Più tardi, dopo aver rifiutato un’iniezione di morfina propostale dall’infermiera, J. indica a quest’ultima il narratore, dicendo: “Ora dunque vede la morte” (già qualche giorno prima, infatti, le aveva promesso che gliela avrebbe mostrata)(27). La frase non dev’essere intesa in un senso generico, quello per cui il filosofo Kojève poteva scrivere che “l’Uomo non è solo mortale, è la morte incarnata”(28), ma va riferita proprio alla persona del narratore. Se J. adesso è cosciente di ciò ; che egli ha compiuto la notte prima (lo si capisce da una sua allusione quasi scherzosa), nell’assegnargli il ruolo della morte riconferma quello che doveva essere, nella sua mente, un piano premeditato. Anche se al momento la donna si addormenta, verso le sette di mattina il suo stato peggiora. Prima appare di colpo agonizzante, poi le crisi si alternano ai momenti di ripresa. Durante uno di essi, J. si rivolge al narratore, che è rimasto solo con lei: “Mi sorrise in modo naturale e persino con divertimento. Subito dopo, mi disse a voce bassa e rapidamente: “Presto, una iniezione”. (Dalla notte non ne aveva mai chieste.) Presi una grossa siringa, vi introdussi due dosi di morfina e due dosi di pantopon, cioè quattro dosi di stupefacente. Il liquido fu piuttosto lento a penetrare, ma, vedendo ciò ; che facevo, lei rimase molto calma. Non si mosse mai. Due o tre minuti più tardi, il suo polso divenne irregolare, diede un colpo violento, si fermò ;, poi si rimise a battere pesantemente per fermarsi di nuovo, più volte, infine divenne estremamente rapido e impercettibile, e “si disperse come sabbia”. […] Potrei aggiungere che, in quegli istanti, J. continuò ; a guardarmi con lo stesso sguardo affettuoso e consenziente”(29).
Il narratore dichiara di non voler commentare la scena che ha descritto. Osserva però ;: “Io stesso non vedo nulla di importante nel fatto che quella ragazza che era morta, al mio richiamo tornò ; in vita, ma vedo un prodigio che confonde nel suo coraggio, nella sua energia che fu abbastanza forte da rendere la morte sterile per tutto il tempo che lei lo volle”(30). Al personaggio di J. si addicono dunque le parole di elogio pronunciate da un diverso protagonista blanchotiano, quello del racconto quasi coevo La folie du jour: “Ho tuttavia incontrato degli esseri che non hanno mai detto alla vita, taci, e mai alla morte, vattene. Quasi sempre delle donne, delle belle creature”(31). Un passo precedente di L’arrêt de mort ci aiuta a capire che il narratore, per quanto non abbia mai esplicitamente presentato i propri sentimenti verso J. come di tipo amoroso, non si rassegna alla perdita della donna: “Più tardi feci chiedere da Louise [alla madre e agli altri parenti] l’autorizzazione di fare imbalsamare sua sorella. Queste pratiche vennero giudicate malsane, per non dire di più. Ma se la paura li indusse a farsi di me non so quale idea, non posso affatto volergliene”(32). Dunque il calco delle mani di J. non gli basta ancora come ricordo: il suo sogno – reso irrealizzabile solo dal rifiuto della famiglia di lei – sarebbe quello di poter conservare un simulacro integrale della defunta, un monumento che coincida con l’aspetto esteriore del suo corpo, come per eternizzarne la presenza.
Ma veniamo ora alla seconda parte del racconto, che al pari della prima esordisce con varie allusioni oscure. Il narratore dichiara, ad esempio, di subire l’attrazione di un’idea, ma la descrive come se fosse un personaggio femminile: “Quando sorge, quest’idea, non c’è più ricordo né timore, né stanchezza né presentimento, né rievocazione di ieri né progetto per domani. Essa sorge e forse è sorta mille volte, diecimila volte. Chi dunque mi è più familiare ? Ma la familiarità, ecco ciò ; che tra noi si è perduto per sempre. Io l’osservo. Vive con me. È ; in casa mia. A volte si mette a mangiare ; a volte, benché raramente, dorme accanto a me”(33). All’inizio della seconda parte, egli continua a risiedere nell’albergo della rue d’O. Ha una vicina di camera di nome Colette, con cui ha fatto conoscenza e che (pur avendo un marito fuori Parigi e un amante in città, dal quale però ; si sta staccando) si dimostra interessata a lui. Il narratore, che è quasi sempre fuori per lavoro, una sera, mentre rientra nell’hotel, con la complicità del buio dovuto a un interruttore guasto, sbaglia porta e si ritrova nella stanza di Colette. L’effrazione involontaria viene accolta bene dall’interessata, tanto che il narratore esita a confessare di essere finito lò ; per errore. Tuttavia egli si sente presto in imbarazzo, per l’aria di rispettabilità assunta dalla donna, e anche in seguito, pur avendo vari incontri con lei, le presterà poca attenzione. In particolare, reagirà con fastidio all’idea della vicina di fargli visita, perché nella propria camera egli preferisce non invitare nessuno.
Un giorno, rientrando, chiede al portiere di non essere disturbato e, per maggiore precauzione, fa appendere la chiave al pannello, come se fosse assente. Nonostante ciò ;, verso le cinque del pomeriggio, qualcuno entra senza bussare. “La persona che era entrata si trovava in mezzo alla stanza. Volevo scrivere che somigliava a una statua, perché, voltata verso la finestra e immobile, aveva in effetti l’aspetto di una statua”(34). Mescolando fra loro tempi diversi, il narratore aggiunge che, nel momento in cui scrive, può ; osservare quella persona, una donna, che si trova a pochi passi da lui, sia pure in una stanza che non è più quella dell’albergo ; egli vorrebbe poter tornare indietro nel tempo, ma non può ;, perché “non appena l’idea sorge, bisogna seguirla fino in fondo”(35). Come si vede, la formula usata è simile a quelle che si leggevano in apertura della seconda parte, e stabilisce dunque un’identificazione fra la donna con cui il narratore convive nel momento in cui sta scrivendo (ossia nel 1947) e l’idea.
Ma se torniamo al passato, scopriamo che di questo personaggio femminile non sappiamo ancora nulla, tranne l’effrazione che ha compiuto entrando di sorpresa nella camera dell’uomo. Lei è vestita di nero e sembra dominata dalla paura ; infatti, appena urta per disattenzione un tavolo facendo rumore, per lo spavento cerca di fuggire via. Il narratore la insegue, l’afferra e la riporta nella stanza. Segue una scena strana, la cui natura erotica può ; essere solo intuita, visto che alla lettera si parla di atti di violenza: “In quel momento avrei potuto fare qualunque cosa: romperle un braccio, schiacciarle il cranio o sbattere io stesso la testa contro il muro, perché quella forza furibonda non era, mi sembra, rivolta particolarmente contro di lei. Era una potenza senza scopo, simile al soffio del terremoto, che scuoteva, rovesciava gli esseri. Da quel soffio, io stesso sono stato scosso, e così ; sono diventato una tempesta che ha aperto le montagne e ha reso folle il mare”(36). Situazioni del genere non sono infrequenti nella narrativa blanchotiana, e sono già state commentate dalla critica. Scrive ad esempio una studiosa, a proposito delle righe citate: “L’eros dunque come forza cieca, indipendente dalla volontà del narratore, che si abbatte sull’amante […]. Non è una concezione dell’eros che, da parte del più forte, legittima tutte le violenze, tutti gli eccessi ? Dire ciò ; sarebbe dimenticare un aspetto importante della cosa: se Nathalie è, nell’amore, assolutamente alla mercé della violenza, sembra nel contempo non esserne colpita. […] Resta impassibile e, quando “la tempesta” si calma, non si ricorda di nulla”(37).
La donna si chiama appunto Nathalie: il narratore la conosce solo superficialmente, avendola incontrata alcune volte in un ufficio. Egli non sa spiegare cosa l’abbia spinta a compiere questa strana visita, che però ; non è in contrasto col suo carattere: “Era molto timida, benché capace di azioni esorbitanti. Ad esempio, si perdeva molto spesso a Parigi, e la sua timidezza non le impediva di fermare i passanti, ma le toglieva di mente ciò ; che voleva chiedere o, se se ne ricordava, la risposta che le veniva data. A rigore, poteva andare a trovare uno sconosciuto”(38). Leggendo la descrizione del contegno di Nathalie, viene da pensare alla protagonista di un’opera famosa apparsa due decenni prima, ossia Nadja di André Breton. L’analogia è stata colta da Evelyne Londyn, che scrive: “Non è dunque una semplice coincidenza se Nathalie come Nadja è slava, e se i loro nomi si toccano. Come Nadja, Nathalie abborda i passanti nelle strade, pur essendo molto timida”(39). In ogni caso, dopo la sua visita al narratore, la donna per qualche tempo non dà più notizie di sé.
La notte stessa egli ripensa ad un’altra sua conoscente, che aveva incontrato la mattina sulla metropolitana e che gli aveva parlato del suo matrimonio imminente. Allora decide – quasi per contagio mimetico rispetto all’atto irrazionale compiuto da Nathalie – di andare subito a trovarla. Simone (è questo il nome della donna) abita lò ; vicino, in palazzo vecchio e malandato. Appena giunto sul posto, il narratore si accorge di non ricordare con precisione quale sia l’appartamento ; dopo aver bussato a varie porte, ne spinge una a caso, che si apre dando accesso a un locale buio. Una luce si accende dietro un tendaggio, permettendo al narratore di riconoscere la camera in cui era già stato, ma al tempo stesso inducendolo ad andarsene. Simone ha avuto comunque il tempo di riconoscerlo, tanto che il giorno dopo lo raggiunge in un ristorante e, senza mostrarsi offesa per l’effrazione notturna, gli spiega che l’ha interpretata come un segno di contrarietà, da parte dell’uomo, nei riguardi dell’annunciato matrimonio. Per cancellare quest’impressione, egli nega ciò ; e la esorta vivamente a sposarsi.
Nel periodo successivo il narratore si ammala. Il suo medico – evidentemente lo stesso di cui si è parlato nella prima parte – lo dà già per spacciato, e ne approfitta per fare un altro dei suoi esperimenti, iniettandogli un prodotto di sua invenzione, che provoca di fatto una grave alterazione del sangue. Dopo aver rischiato la morte, il paziente riesce a riprendersi e, pur indebolito, a lasciare la clinica in cui è stato ricoverato. Scrive a Nathalie chiedendole un appuntamento in un caffè. Al momento in cui si incontrano, egli sta male ed è di cattivo umore ; la invita comunque nella sua camera d’albergo, quella in cui, tempo prima, lei si era introdotta. Ma anche quando ciò ; accade, i due si sentono psicologicamente a disagio. Per inciso, di Nathalie ci viene detto che il suo viso reca il riflesso di un’influenza slava, che fin dall’infanzia è stata attratta dalle situazioni insolite, ai limiti della follia, che è stata sposata ma ha rotto il suo matrimonio. A un certo punto lei chiede al narratore se conosce altre donne. Quando egli risponde affermativamente, Nathalie comincia, benché il locale in cui si trovano sia surriscaldato, a tremare e a battere i denti come se patisse di un freddo intenso. Questo sintomo ci è già noto, perché all’inizio del racconto era stato attribuito alla donna che, nel 1940, aveva voluto aprire l’armadio presente in quella stessa stanza per scoprire cosa contenesse, e che era stata colta da una lunga crisi di tremito(40). Per il momento, comunque, Nathalie riesce a riprendersi in breve tempo e se ne va.
Il narratore continua a pensare a lei, identificandola di nuovo con un’idea e con la sua attuale convivente: “Ciò ; che mi ha impressionato in quest’idea è una sorta di durezza, la distanza infinita fra il suo rispetto per me e il mio rispetto per essa. […] Posso perfino sognarla: se a quell’epoca, come faccio oggi, avessi più spesso camminato al suo fianco, se le avessi riconosciuto il diritto di sedersi al mio tavolo e di stendersi accanto a me, invece di restare in un’intimità di pochi momenti, in cui si mostravano tutti i suoi poteri orgogliosi e in cui i miei l’afferravano con un orgoglio ancora più grande, non ci sarebbe mancata né la familiarità, né l’uguaglianza nella tristezza, né l’assoluta schiettezza”(41). In riferimento al passato, egli accenna di sfuggita al fatto che aveva deciso di affittare una camera in un diverso albergo, pur conservando quella dell’hotel di rue d’O. Non è del resto in nessuna delle due che avviene il successivo incontro con Nathalie, bensì ; nell’abitazione – una vasta ma scalcinata soffitta – in cui lei risiede con la figlioletta Christiane. La donna si mantiene lavorando come traduttrice da varie lingue (tedesco, inglese e russo). Quando il narratore va a trovarla là per la prima volta, Nathalie, con la consueta mescolanza di timidezza ed audacia, gli propone di trasferirsi in quel luogo. Egli rifiuta, quindi la soffitta rappresenterà per loro solo uno dei vari posti in cui si vedranno. La relazione è resa tuttavia insolita dal carattere singolare di entrambi, e in essa non mancano i momenti di conflitto e di lontananza psicologica.
Un giorno, durante la guerra e mentre Parigi è sotto i bombardamenti, i due sono per strada assieme e cercano riparo, come molte altre persone, in una stazione della metropolitana. Da qualche tempo egli si rivolge spesso a Nathalie nella sua lingua (il russo, si presume), che pure conosce pochissimo ; lei sembra divertita da ciò ;, ma gli risponde sempre in francese. Nell’usare un linguaggio che non padroneggia, anzi in parte inventa, il narratore si sente irresponsabile e le fa quindi dichiarazioni molto più affettuose del solito: in un paio di occasioni, le propone addirittura di sposarla, pur non avendo tale intenzione(42). Mentre sono rifugiati nella metropolitana, egli comincia a farle discorsi dello stesso genere in francese, cosa che provoca nella donna una forte reazione emotiva. Non c’è modo di capire quale, perché – aggiunge il narratore – “nello stesso istante, mi venne sottratta, rapita dalla folla, e lo spirito scatenato di quella folla, scagliandomi lontano, mi colpì ;, schiacciò ; anche me, come se il mio crimine, divenuto folla, si fosse accanito a separarci per sempre”(43). Verso sera egli va a cercarla nell’ufficio in cui lei lavora ; lò ; però ; non l’hanno vista, e al telefono di casa non risponde nessuno. Il narratore si reca allora alla soffitta, ma può ; solo bussare vanamente alla porta (la figlia Christiane, in quei giorni, si trova in campagna). L’uomo è sempre più preoccupato, e giunge persino a temere che l’amica si sia uccisa. Non sentendosela di trascorrere la notte nell’albergo in cui risiede, dopo vari tentennamenti decide di tornare, per una volta, nella vecchia camera di rue d’O., dove ormai si reca soltanto di rado.
Quando è giunto davanti alla porta della stanza e si appresta ad aprirla con la chiave che tiene abitualmente in un portafogli, si accorge che la chiave è sparita. All’idea di averla persa, si dispera e si irrita, tanto da colpire col pugno la porta, che a sorpresa si apre. Egli è certo, a questo punto, che nella stanza si è introdotto qualcuno, anche se nel buio non può ; sperare di scorgerlo. Entra, chiude la porta, si siede sul letto e guarda l’oscurità che lo circonda, inquieto e impaurito, finché gli pare di intravedere a pochi passi da sé una donna. Temendo di spaventarla, si avvicina lentamente, senza compiere movimenti bruschi, alla poltrona sulla quale è seduta, procede addirittura in ginocchio finché giunge a sfiorarla. “Anche la mia mano su quel corpo freddo mi sembrava lontanissima da me, mi vedevo separato da essa e da essa respinto in qualcosa di disperato, che era la vita, tanto che tutta la mia speranza mi sembrava essere all’infinito, in quel mondo freddo, in cui la mia mano restava posata su quel corpo e l’amava e in cui quel corpo, nella sua notte di pietra, accoglieva, riconosceva e amava questa mano”(44). Il personaggio femminile (si tratta ovviamente di Nathalie, che ha compiuto una nuova intrusione nella camera di rue d’O.) torna a mostrarsi al narratore come una statua di pietra, che occorre in primo luogo tentare di rianimare. Infatti, con cautela, egli la prende per mano e la fa stendere sul letto. Poi le tiene la testa fra le mani e, dopo averla invitata a non spaventarsi, annuncia che sta per soffiarle sul viso. Il gesto, che lei peraltro gli impedisce di compiere scostandosi, sarebbe di per sé carico di risonanze religiose, richiamando quello con cui l’esistenza è stata trasmessa ad Adamo dal suo creatore(45).
Come di consueto, solo in modo indiretto ci viene suggerito che la scena successiva è di natura erotica: “Il freddo di una mano, il freddo di un corpo non è niente, e anche se le labbra vi si avvicinano, l’amarezza di una bocca fredda è temibile solo per chi non sa essere né più amaro né più freddo, ma c’è un’altra barriera che ci separa: quella della stoffa morta su un corpo silenzioso, di quegli indumenti che bisogna riconoscere e che non rivestono niente, impregnati di insensibilità, con le loro pieghe cadaveriche e la loro inerzia metallica. è questa prova che bisogna superare”(46). Può ; sembrare strana l’insistenza blanchotiana nel presentare le situazioni amorose in forma paradossalmente negativa, associandole alla violenza oppure, come qui, alla rigidezza che è tipica di una salma o di un simulacro scolpito. Ma questo tipo di visione costituisce il cuore stesso di un racconto che sembra scritto per fornire una conferma anticipata alle parole di Bataille: “Palesemente la morte è la verità dell’amore. Come l’amore è la verità della morte”(47).
Anche in questo caso, comunque, Nathalie esce indenne (a parte una piccola ferita sulla fronte) dall’esperienza che ha provocato o subì ;to, e sembra anzi piuttosto allegra. Il narratore, da parte sua, esprime il desiderio di non separarsi più da lei. Si fa restituire la chiave, che evidentemente Nathalie gli ha sottratto dal portafogli, ma senza chiederle spiegazioni, tutto preso com’è dal sentimento che adesso prova nei suoi riguardi. Ciò ; lo spinge, nel periodo successivo, a rimanere il più possibile assieme alla donna, nella soffitta che diventa la loro dimora comune. Un giorno però ; deve assentarsi, e questa lontananza momentanea crea le condizioni per il chiarimento decisivo con Nathalie.
Tutto comincia quando lei ammette di aver commissionato a uno scultore un calco della propria testa e delle proprie mani. Il narratore chiede come le sia venuta tale idea, ma non riesce ad ottenere una risposta né a dissuadere la donna dal suo proposito. Visto che il biglietto da visita dello scultore è stato sottratto da Nathalie, assieme alla chiave, dal citato portafogli, l’artista di cui si parla dev’essere lo stesso che ha realizzato, nella prima parte del racconto, il calco delle mani di J. Il dialogo che segue, anche se a tratti può ; sembrare oscuro, svolge un ruolo essenziale nell’economia del racconto. La donna confessa che il suo progetto ha già trovato attuazione, e lascia che sia il narratore a indovinare, gradualmente, ciò ; che non gli ha ancora detto, come se fosse certa in anticipo di ottenere il consenso di lui. L’uomo si accorge in effetti di avere presentito l’accaduto e capisce che Nathalie ha già ritirato i calchi, che si trovano nella stanza: “Ora quella cosa è laggiù, lei l’ha svelata e, avendola vista, ha visto in faccia ciò ; che è vivo per l’eternità”(48). Anche se il narratore si limita a suggerirlo, è lecito supporre che la donna abbia scoperto in precedenza la “prova” occultata nell’armadio, ossia le impronte delle mani di J., perché solo questo può ; averla indotta a compiere su se stessa un’operazione analoga, resa ancor più solenne per il fatto di associarsi a un secondo calco, quello del proprio volto.
Trovano qui il loro punto di congiunzione i due temi di cui finora abbiamo seguito il decorso parallelo all’interno del racconto. Il primo concerne gli atti di effrazione, il più importante dei quali è quello (non descritto appieno, ma evocato fin dall’inizio) della violazione da parte di Nathalie dell’armadio contenente l’oggetto legato al ricordo di J. Aggiungiamo per inciso che, se abbiamo scelto di usare il termine “effrazione” per designare una situazione che, come si è visto, torna con insistenza nel testo, è perché i personaggi che di volta in volta varcano soglie o aprono armadi senza essere autorizzati a farlo, pur non forzando delle serrature compiono ugualmente qualcosa di grave, ossia un’intromissione nello spazio intimo di qualcun altro, con effetti che si rivelano di volta in volta negativi o positivi. Il secondo tema a cui alludiamo è quello del simulacro: Nathalie (descritta lei stessa, in varie occasioni, come fosse una statua), dopo aver visto il calco di J., deve aver compreso a fondo la personalità del narratore. Ne sono scaturiti, nella sua mente, una competizione segreta con la donna morta e il desiderio di trionfare su di lei superandola, così ; da poter offrire all’uomo amato ciò ; che da sempre egli desiderava, vale a dire un simulacro immutabile della persona cara, nella forma di una maschera che sia ad un tempo vitale e – anticipatamente – funeraria(49).
Dunque, è proprio per aver avuto l’audacia di trasformarsi davvero, e non più solo metaforicamente, in una donna-statua, che Nathalie è assurta agli occhi del narratore al rango più elevato, quello di donna-idea, meritandosi l’elogio che le viene rivolto nelle celebri righe finali del racconto: “Forse N., parlandomi di questo “progetto” [quello, attuato, di realizzare i due calchi], non ha voluto fare altro che lacerare, con mani gelose, le apparenze nelle quali vivevamo. è possibile che, stanca di vedermi perseverare con una sorta di fede nel mio ruolo di uomo del “mondo”, lei mi abbia, con questa storia, bruscamente ricordato la verità sulla mia condizione e mostrato col dito qual era il mio posto. […] Nemmeno io sono stato lo sventurato messaggero di un’idea più forte di me, né il suo zimbello, né la sua vittima, perché questa idea, se mi ha vinto, ha vinto solo per mezzo mio, e infine è sempre stata alla mia misura, l’ho amata e non ho amato che lei, e tutto ciò ; che mi è accaduto l’ho voluto, e non avendo avuto altro sguardo che per lei, dovunque essa sia stata e dovunque io abbia potuto essere, nell’assenza, nella sventura, nella fatalità delle cose morte, nella necessità delle cose vive, nella fatica del lavoro, nei volti nati dalla mia curiosità, nelle mie parole false, nei miei giuramenti bugiardi, nel silenzio e nella notte, le ho sempre dato tutta la mia forza e lei mi ha dato tutta la sua, in modo che questa forza troppo grande, incapace d’essere distrutta da alcunché, forse ci destina a una sventura smisurata, ma se è così ;, questa sventura l’assumo su di me, rallegrandomene a dismisura, e le dico eternamente: “Vieni”, ed eternamente lei è qui”(50)
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Notes
(1) Cfr. Georges Bataille, Avant-propos a Le bleu du ciel, in Romans et récits, Paris, Gallimard, 2004, p. 111: ÇCome si pu˜ perdere tempo su libri alla cui creazione l’autore non sia stato manifestamente costretto? Ho voluto formulare il mio principio. Rinuncio a tentare di giustificarlo. Mi limito a fornire qualche titolo che risponda alle mie affermazioni [É]: Wuthering Heights, Il processo, Ë la recherche du temps perdu, Le rouge et le noir, Eugénie de Franval, L’arrêt de mort, Sarrazine, L’idiotaÉÈ (tr. it. Prefazione a L’azzurro del cielo, in Tutti i romanzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 5 ; si avverte che i passi delle traduzioni italiane cui si rimanda vengono spesso citati con modifiche).
(2) I due interrogativi si ritrovano anche in una delle più autorevoli interpretazioni del libro, quella proposta da Jacques Derrida in Survivre, saggio del 1979 incluso nel suo libro Parages, Paris, Galilée, 1986, pp. 117-218 (tr. it. Sopra-vivere, in Paraggi, Milano, Jaca Book, 2000, pp. 175-271).
(3) Infatti L’arrêt de mort e Le Très-Haut sono stati editi da Gallimard nel 1948.
(4) Si pu˜ vedere la riproduzione in facsimile della prière d’insérer sul sito www.mauriceblanchot.net.
(5) Frasi simili a quelle che abbiamo letto si trovano, del resto, in altri testi blanchotiani. Ad esempio, sul rapporto di Poe con l’immagine della madre, cfr. “Du merveilleux”, in L’Arche, 27-28, 1947 ; poi in Bident & Vilar éd., Maurice Blanchot. Récits critiques, Tours-Paris, Farrago-Léo Scheer, 2003, pp. 39-40.
(6) Pierre Madaule, Une tâche sérieuse ?, Paris, Gallimard, 1973.
(7) M. Blanchot, Lettera a Madaule del 30 maggio 1989, op.cit. in P. Madaule, “Grammaire de L’arrêt de mort“, in Bident & Vilar éd., op.cit., p. 545.
(8) M. Blanchot, L’arrêt de mort, Paris, Gallimard, 1948 ; 1984, p. 9 (tr. it. La sentenza di morte, Milano, SE, 1989, p. 12).
(9) Ibid., p. 10 (tr. it. p. 12).
(10) Cfr., di Kafka, il biglietto dell’autunno-inverno 1921 e la lettera del 29 novembre 1922, in Max Brod & Franz Kafka, Un altro scrivere. Lettere 1904-1924, tr. it. Vicenza, Neri Pozza, 2007, pp. 361 e 415.
(11) Ibid., p. 361.
(12) M. Blanchot, “Kafka et Brod”, in La Nouvelle Nouvelle Revue Française, 22, 1954 ; poi in L’Amitié, Paris, Gallimard, 1971, p. 274 e De Kafka à Kafka, ivi, 1981, p. 142 (tr. it. “Kafka e Brod”, in Da Kafka a Kafka, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 108-109).
(13) L’arrêt de mort, op.cit., p. 10 (tr. it. pp. 12-13).
(14) Ibid., p. 17 (tr. it. p. 16).
(15) Ibid., p. 19 (tr. it. p. 17).
(16) P. Madaule, “L’événement du récit”, in Revue des Sciences Humaines, 253, 1999, p. 73.
(17) L’arrêt de mort, op.cit., p. 21 (tr. it. p. 18).
(18) Ci riferiamo al libro di Christophe Bident, Maurice Blanchot, partenaire invisible, Seyssel, Champ Vallon, 1998, pp. 103-109, 291-295, nel quale per˜ si mostra come gli elementi autobiografici vengano incorporati nel racconto solo con trasposizioni e modifiche.
(19) L’arrêt de mort, op.cit., p. 29 (tr. it. p. 22).
(20) Max Brod, Kafka [1937], tr. it. Milano, Mondadori, 1956 ; 1978, p. 193. Blanchot ha commentato questo libro nel citato saggio Kafka et Brod.
(21) L’arrêt de mort, op.cit., p. 31 (tr. it. p. 24). Nella seconda parte del racconto, a conferma del carattere unitario del volume, il narratore scriverà: Ç Abitavo sempre nell’albergo di rue d’O. È (p. 58 ; tr. it. p. 38).
(22) Ibid., p. 35 (tr. it. p. 26). L’espressione tradotta Ç una figura giacente È è, nel testo francese, Ç une gisante È, termine tecnico dell’arte con cui si indica appunto la statua (in questo caso, di un personaggio femminile) distesa su un monumento funebre.
(23) Per le due citazioni, cfr. ibid., p. 36 (tr. it. p. 26).
(24) Ibid., p. 35 (tr. it. p. 26).
(25) Cfr. Henry James, L’angolo prediletto [1908], in Racconti di fantasmi, tr. it. Torino, Einaudi, 1988 ; 1992, pp. 595-627, e in particolare p. 623 ; Franz Kafka, I coniugi [scritto nel 1922, ma pubblicato nel 1931], in Racconti, tr. it. Milano, Mondadori, 1970, pp. 501-506.
(26) L’arrêt de mort, op.cit., pp. 43-44 (tr. it. p. 30). A proposito di Ç une rose par excellence È, Jacques Derrida (in Survivre, op.cit., pp. 202-203 ; tr. it. p. 257) richiama giustamente l’incipit di una poesia scritta da Rilke in francese, la terza del ciclo Les roses: Ç Rose, toi, ô chose par excellence complète È (R. M. Rilke, Poesie francesi, tr. it. Milano, Crocetti, 1989, p. 20).
(27) Cfr. L’arrêt de mort, op.cit., pp. 30 e 48 (tr. it. pp. 23 e 33).
(28) Alexandre Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Paris, Gallimard, 1947 ; 1979, p. 569 (tr. it. Introduzione alla lettura di Hegel, tr. it. Milano, Adelphi, 1996, p. 709).
(29) L’arrêt de mort, op.cit., pp. 51-52 (tr. it. pp. 34-35).
(30) Ibid., pp. 52-53 (tr. it. p. 35).
(31) M. Blanchot, La folie du jour [1949], Montpellier, Fata Morgana, 1973, p. 13 (tr. it. in M. Blanchot, La follia del giorno – La letteratura e il diritto alla morte, Reggio Emilia, Elitropia, 1982, p. 13).
(32) L’arrêt de mort, op.cit., p. 38 (tr. it. p. 27).
(33) Ibid., pp. 55-56 (tr. it. pp. 36-37).
(34) Ibid., p. 65 (tr. it. p. 42).
(35) Ibid., p. 67 (tr. it. p. 42).
(36) Ibid., p. 68 (tr. it. p. 43).
(37) 37 Anne-Lise Schulte Nordholt, Maurice Blanchot. L’écriture comme expérience du dehors, Genève, Droz, 1995, p. 265.
(38) L’arrêt de mort, op.cit., pp. 69-70 (tr. it. p. 44).
(39) E. Londyn, Maurice Blanchot romancier, Paris, Nizet, 1976, p. 55.
(40)Madaule colloca l’azione della seconda parte Ç alla fine del 1939 e nei primi mesi del 1940, anteriormente alla caduta di Parigi che è del 14 giugno È (“L’événement du récit”, op.cit., p. 67).
(41) L’arrêt de mort, op.cit., pp. 87-88 (tr. it. p. 54).
(42) In un saggio di qualche anno prima, l’autore aveva asserito che Ç se un linguaggio ci sembra tanto più espressivo e più vero quanto meno lo conosciamo, se le parole hanno bisogno di una certa ignoranza per conservare il loro potere di rivelazione, un simile paradosso non pu˜ sorprenderci granché, dato che i traduttori non cessano di incontrarlo È (M. Blanchot, “Traduit deÉ”, in L’Arche, 17, 1946 ; poi in La part du feu, Paris, Gallimard, 1949 ; 1984, p. 173). E Nathalie, come abbiamo appena visto, è traduttrice di professione.
(43) L’arrêt de mort, op.cit., p. 103 (tr. it. p. 62).
(44) Ibid., p. 111 (tr. it. p. 66).
(45) Cfr. Genesi, 2, 7: Ç E Jahve Elohim form˜ l’uomo dalla polvere della terra e soffi˜ nelle sue narici un alito di vita e l’uomo fu un essere vivente È (La Sacra Bibbia, tr. it. Milano, Garzanti, 1964, p. 19).
(46) L’arrêt de mort, op.cit., pp. 112-113 (tr. it. p. 67).
(47) G. Bataille, Emily Brontë [1957], in La litterature et le mal, in Îuvres completes, IX, Paris, Gallimard, 1979, p. 174 (tr. it. Emily Brontë, in La letteratura e il male, Milano, SE, 1987, p. 16).
(48) L’arrêt de mort, op.cit., p. 125 (tr. it. p. 74).
(49) Per l’importanza dei temi del calco e della maschera mortuaria in Blanchot, cfr. Georges Didi-Huberman, De ressemblance à ressemblance, in Bident & Vilar éd., op.cit., pp. 143-167.
(50) L’arrêt de mort, op.cit., pp. 126-127 (tr. it. p. 75).