Manlio Iofrida | Ecologia e filosofia

Manlio Iofrida est professeur de philosophie à l’Université de Bologne. Il travaille depuis de nombreuses années sur la philosophie française et plus particulièrement sur les œuvres de Gilles Deleuze et de Maurice Merleau-Ponty. Il est notamment particulièrement concerné par le thème de la nature et de la naturalité.

La natura, l’ecologia sono temi che sono diventati, ormai da molti anni, quasi dei luoghi comuni, di cui si servono indifferentemente le parti politiche e le posizioni culturali più diversi; tuttavia, si tratta di concetti tutt’altro che scontati e privi di pericoli e ambiguità. Se si esamina brevemente il concetto di natura che è al centro del pensiero di Rousseau, e che certamente è stato uno dei più importanti e influenti, questi problemi emergono con chiarezza: nemico della tecnica, Rousseau le contrappone una natura vergine, intatta, intesa come un’origine piena: appellarsi alla natura diventa così la nostalgia del recupero di uno stato e un’epoca precedente alla violenza dell’uomo; natura significa un ordine, un equilibrio che ha l’oggettività di una legge naturale. In questo modo, la natura non è che l’opposto correlativo della cultura e della storia: questa coppia di concetti, nonché escludersi, si presuppongono reciprocamente, pur escludendosi, secondo quella categoria del supplemento che Jacques Derrida, nel suo De la grammatologie, ha così efficacemente introdotto, proprio a proposito di Rousseau e del suo grande seguace contemporaneo, Claude Lévi-Strauss.

Se vogliamo  uscire dall’alternativa di questi concetti tradizionali, dobbiamo deciderci a pensare la natura non come a qualcosa di oggettivo, di positivo, di fisso e stabile, ma, al contrario, come a qualcosa di negativo, di storico, di relativo (in senso lato) a un soggetto (non necessariamente umano: anche semplicemente animale). Per fare un esempio molto banale, che cosa è naturale per noi? Ciò che si riferisce a un sapere che non deriva dalla nostra tradizione culturale, dal linguaggio, dalla nostra esperienza storica e personale, ma che attingiamo mediante le risorse del nostro corpo: quest’ultimo è ben lontano dall’essere diretto da un sapere positivo, chiaro e cosciente, da ciò che possiamo aver appreso per via intellettuale e culturale; anche se la cultura e la storia molto possono su di esso, non possono mai esaurire quello strato, preculturale e prelogico, che comanda gli aspetti fondamentali della nostra vita come esseri viventi, biologici. Non respiriamo, né camminiamo secondo quel che ci detta la nostra volontà cosciente: al contrario, come ha ben mostrato Italo Svevo, se ci mettiamo a camminare pensando ai movimenti dei muscoli delle nostre gambe che sono a ciò necessari, cominciamo ben presto a zoppicare e incespicare…

Se diamo il giusto peso a questo sapere prelogico che governa la parte fondamentale della nostra vita, arriveremo rapidamente a riconoscere che naturale non è un ordine di cose oggettivo e originario, ma un rapporto, un certo accordo fra noi in quanto esseri viventi e l’ambiente che ci circonda, una corrispondenza che si è creata fra noi e il mondo in secoli di evoluzione; la natura non è un  oggetto, ma la coppia essere vivente-ambiente, coppia che è in continua trasformazione, poiché sia il nostro ambiente che noi, esseri viventi che ne facciamo parte, siamo in continua evoluzione e la vita consiste in uno scambio reciproco fra l’essere vivente e l’ambiente in cui è inserito.

È chiaro, in questa prospettiva, che né tecnica né cultura né storia sono esclusi da un simile concetto di natura: la tecnica non è che il prolungamento dei nostri organi e dunque non fa che spostare l’equilibrio fra noi e l’ambiente a nostro favore, ma senza mai (come dimostrano recenti eventi naturali: l’eruzione del vulcano islandese, la rovinosa inondazione di petrolio nel Golfo del Messico…) esaurire del tutto la natura, senza mai culturalizzarla completamente. Storico è l’equilibrio fra essere vivente e ambiente che si realizza in ciascun momento, poiché esso non dipende dal rispetto di nessuna legge fissa, ma dall’adattarsi continuo di due entità intimamente storiche, dinamiche, l’ambiente e l’essere vivente.

Ma allora quale è il senso del concetto di rispetto dell’ordine ecologico? Se non esiste una natura oggettiva, fissa, immobile, astorica, possiamo forse fare qualunque cosa? Ovviamente no: un ordine e un equilibrio, per il fatto di essere dinamici e di non consistere in leggi oggettivabili, non sono per questo meno reali; i limiti al prometeismo dell’uomo ci sono, e i risultati della loro violazione sono sotto gli occhi di tutti – basti pensare al fenomeno surriscaldamento del pianeta. Semplicemente, l’ordine e l’equilibrio vanno riferiti non a un’entità, ma a quella relazione vitale (e dunque non meccanica e non completamente determinabile) fra essere vivente e ambiente che è il vero significato del concetto di natura. Sono antiecologiche tutte quelle tecniche e quelle azioni (non solo umane) che tendono a inaridire o a distriggere tale relazione vitale; sono ecologiche quelle che invece non solo la conservano, ma possono accrescere, rafforzare tale relazione. Così l’equilibrio (ormai purtroppo distrutto) che si era stabilito fra uomo e ambiente in Camargue non era affatto dovuto allo spontaneo equilibrio armonico della natura, ma a un insieme di tecniche tradizionali di controllo delle acque, di gestione parsimoniosa delle risorse del suolo, ecc., insomma, ad un insieme di interventi umani legati alla cultura contadina tradizionale del luogo, che erano tali da lasciare un certo gioco, una certa libertà alle forze evolutive dell’ ambiente: non si trattava di un controllo totale (che è sempre mitico), ma di un’azione umana accordata all’azione convergente dell’ambiente, dunque di un controllo parziale – che lasciava spazio all’indeterminatezza, al caso, all’intervento imprevedibile del non-umano. In questo senso l’ecologia non è l’abolizione della storia, ma la possibilità di immaginare un’altra storia, un’altra tecnica che invece di cercare di esaurire la natura cercano di lasciarne attive le risorse.

Torniamo ora un momento al concetto di equilibrio fra essere vivente o ambiente, – un tema in cui convergono la lezione di Maurice Merleau-Ponty, che ha coniato per esso il termine di chiasma, e quello della contemporanea teoria dei sistemi, che parla piuttosto di accoppiamento. Il senso di tali termini va attentamente soppesato in tutte le sue implicazioni: non si tratta di pensare alla coesistenza di due termini – l’essere vivente e l’ambiente – l’uno esterno all’altro, ma della relazione di due “entità” che non sono né un’unità pura e semplice (l’essere vivente infatti si distingue e si contrappone all’ambiente) né due entità separate: si tratta di due entità che si coappartengono. La relazione fondamentale, fondativa della natura è una relazione paradossale: possiamo cercare di avvicinarci alla comprensione di tale paradossalità se prendiamo in esame il fenomeno della visione. Quando noi guardiamo un paesaggio, ciò che conta è certo quello che vediamo di fronte a noi; ma in realtà, lo spettacolo anteriore è condizionato dal fatto che noi siamo inseriti in un campo visivo: non potremmo vedere quel paesaggio senza che ci fosse in qualche modo presente (non esplicito, non evidente) anche tutto ciò che è alle nostre spalle. Noi non vediamo come una cinepresa che guarda dall’alto e dall’esterno gli eventi che riprende, noi vediamo il mondo dal suo interno: in altri termini, il visibile ha una parte di invisibile che lo condiziona e lo rende possibile. Il fenomeno della visione manifesta insomma il fatto che io appartengo a un mondo che è più ampio di me, anche se (è questo il culmine del paradosso) quel mondo non potrebbe esistere senza di me: è il mio mondo e se non ci fosse il mio occchio a suscitarlo, esso non ci sarebbe.

Se abbiamo voluto soffermarci su questa singolare relazione, non è per un’inutile sottigliezza concettuale: in realtà, questo tipo di relazione, per cui io rientro in qualcosa che mi eccede, è proprio, come già annunciavamo, quella che fonda la natura e l’ecologia. È proprio il fatto che la mia esistenza rimanda a qualcosa che mi eccede, che va ben al di là di ciò che io posso aver fatto e costruito a evidenziare che non tutto si riduce al mio facere, alla mia costruzione consapevole e che esiste qualcosa da cui dipendo, anche se questa dipendenza non è meccanica e anche se quello da cui io dipendo dipende a sua volta da me, secondo quella dipendenza reciproca che anche la fisica quantistica e il principio di indeterminazione di Heisenberg, nel XX secolo, hanno posto in luce. A monte del mio facere c’è un appartenere, a monte della cultura e dell’azione c’è un momento di passività e contemplazione, ogni determinatezza presuppone un vuoto e un’indeterminatezza che sono una risorsa vitale. Non è vero che in principio era l’azione; al contrario, l’azione è l’altra faccia di un momento di stasi, di immobilità, di limite: una ripetizione marca costantemente ogni differenza, un ricorso vichiano inflette la mitica curva del progresso in un cerchio, o, se si vuole, in una spirale che si riavvolge su se stessa[1]. Al ritmo febbrile dell’azione utile e trasformativa si affianca un momento di contemplazione estatica, di inutilità o gioia priva di finalità esterna che fa parte a pieno titolo dell’idea di natura: quest’ultima non è volta ad un passato di purezza immemoriale, ma rappresenta la fuoriuscita dall’utile e dalla storia che è possibile, almeno in via di principio, in ogni presente storico. La natura e la storia non si dispongono su una linea evolutiva che fa sì che l’equilibrio si sposti progressivamente dalla prima alla seconda: esse sono piuttosto in un rapporto orizzontale, di coappartenenza reciproca e ogni momento storico – se gli uomini sono in grado di pensare e agire non prometeicamente, ma con la consapevolezza del limite e dell’ appartenenza – può aprirsi sulla natura che gli fa da sfondo e da sostegno: va da sé che si tratterà di combinare azione e non-azione, attività e passività, di radicare l’attività nella consapevolezza del limite. A noi, oggi, dunque, il compito di operare storicamente per conquistare la natura che è sul nostro orizzonte, prima che la catastrofe incombente in più modi – riscaldamento ambientale, inaridirirsi delle risorse naturali, continuo impoverirsi del patrimonio della biodiversità – non ci trascini in uno di quei “ricorsi di barbarie” su cui la lezione di Giovambattista Vico ha ancora molto da insegnarci.


[1] Questi temi del vuoto, dell’immobilità e della ripetizione sono stati sentiti assai più dalla cultura orientale che da quella occidentale e la riscoperta, anche in Occidente, di questi valori, riscoperta che dura ormai da più di un secolo, è anch’essa un aspetto importante del sorgere di una nuova sensibilità ecologica.

Laisser un commentaire

Votre adresse e-mail ne sera pas publiée. Les champs obligatoires sont indiqués avec *